Maurizio Scaparro porta in scena una versione della Bottega goldoniana con filologica ricostruzione degli ambienti e dei costumi, e rispetto evangelico del testo.
Riusciremo mai a far intendere agli abbonati incalliti, ai fini conoscitori del teatro in dvd, ai professionisti della poltroncina rossa, agli amanti del coturno o del socco, agli implumi critici dell’ultim’ora, ai verbosi poseurs della bloggosfera, ai superciliosi addetti ai lavori, agli sdegnosi vati della testata “importante”, al tediato everyman che insofferente sbadiglia di fronte all’ennesima pièce in costume, agli entusiasti dell’applauso a scena aperta, riusciremo mai a far intendere a costoro quanto Goldoni sappia essere crudele, sadico, nero? Fino a quando continueremo a leggere i finali delle sue commedie come una lieta ricomposizione di un necessario ordine morale e sociale, continueremo a tradire Goldoni, continueremo a travisarlo.
L’ordine morale che trionfa nelle commedie goldoniane si fonda su di un terribile delitto, il prezzo da pagare per ottenerlo è la castrazione, la morte delle passioni. Se provassimo a leggere Goldoni non più come il cantore della buona, onesta e parsimoniosa borghesia mercantile veneziana, ma come colui che in maniera sempre più notomizzante e spietata è riuscito a comprendere quanto la corruzione, la lascivia, la dissolutezza siano imprescindibile e indispensabile semenza di quella stessa “onesta” classe borghese, allora, forse cominceremmo ad intenderlo.
La Bottega del Caffè è un testo ambiguo, sfuggente, la Venezia che vi è dipinta è mostruosa, marcia, paragonabile forse solo alla machiavellica Firenze della Mandragola. Il fatto che il testo sia incluso nel gruppo delle famose sedici commedie nuove (1750-1751) è estremamente significativo: ci dice, in sostanza, che già all’altezza dell’acmé riformistica del veneziano, questi era perfettamente consapevole del fatto che la crisi della classe borghese non era una fase nell’evoluzione di una frangia sociale in ascesa, bensì un fattore congenito ad essa.
Maurizio Scaparro porta in scena una versione della Bottega goldoniana nel pieno rispetto della scomoda tradizione teatrale che l’avvocato veneziano si porta dietro: filologica ricostruzione degli ambienti e dei costumi, rispetto evangelico del testo. Naturalmente centro della pièce sono il Don Marzio di Pino Micol e il caffettiere Ridolfo di Vittorio Viviani, il resto è discretamente composto da un buon assortimento di pertichini. L’impianto scenico, che segue alla lettera le indicazioni che Goldoni fornisce nelle edizioni a stampa della commedia, è strutturato su due piani: il piano terra a ridosso dei canali con le varie botteghe (il caffè, la locanda, il barbiere, la bisca) e un piano rialzato con vari stanzini praticabili annessi agli esercizi commerciali sottostanti e dotati di finestre che danno sulla strada. La trama pellicolare è nota: Ridolfo, il caffettiere, è un bottegaio onesto e altruista, nonché deus ex machina della commedia; egli ricompone matrimoni che rischiano di esplodere minati come sono dai vizi e dalle passioni di giovani mariti scapestrati e pone sistematicamente rimedio allo sconsiderato chiacchiericcio del nobile napoletano Don Marzio. Quest’ultimo si mostra assolutamente incapace di mantenere il benché minimo segreto e spinge la propia mania di protagonismo fino ai limiti della calunnia. Tuttavia le cose sono leggermente più complesse di come appaiono. Ridolfo è sì il garante dell’ordine sociale ma quest’ordine si fonda su di una morale a dir poco riprovevole e che è da leggersi, in soldoni, come segue: ogni uomo è onorato purchè sia capace di salvare le apparenze. Don Marzio è una forza della natura, è il vizio che si palesa squarciando il velo ipocrita delle apparenze, è puro conatus affabulatorio, è l’esistenza in tutta la sua misera sostanza desiderante. Perché l’ordine di cui si fa paladino Ridolfo venga ristabilito, Don Marzio deve essere scacciato, ostracizzato. Proprio qui, nella scena finale della commedia, troviamo l’intuizione più interessante dello spettacolo di Scaparro: la comunità, ritrovatasi sotto l’insegna di Ridolfo, dalle finestre dei camerini praticabili scaccia Don Marzio apostrofandolo come “spione”; Don Marzio resta solo in scena, gli attori dovrebbero essersi ritirati chiudendosi dietro le finestre, tuttavia queste ultimerestano semichiuse, lasciando trasparire un vago lucore rossiccio, nonché la sagoma dei vari personaggi. A spiare stavolta sono loro, i borghesi ipocriti che attendono con impazienza la diaspora della verità.